Il 2020 e il boom della carne vegetale
Il lockdown ha bloccato allevamenti e produzione di carne, facendoci cambiare abitudini alimentari. Forse in modo più sostenibile.
Un mese prima, Pat Brown, il boss di impossible Foods, fra i leader nella produzione della cosiddetta fake-meat, l’alternativa vegetale alla carne, forte dell’iniezione di mezzo miliardo di dollari nelle casse dell’azienda, aveva annunciato che “raddoppieremo la produzione anno dopo anno per i prossimi 15 anni, ed entro il 2035 smetteremo di usare gli animali come cibo”.
Due obiettivi simili, nei contenuti e nelle tempistiche, e anche immaginati più o meno nello stesso momento: nella primavera del 2020, nel pieno dell’emergenza coronavirus. C’è un motivo, ovviamente. Anzi, ci sono (almeno) tre motivi.
Che cosa sono i Cafo e perché il coronavirus li ha messi in ginocchio
Tralasciando il fatto che inquinano tantissimo (secondo la FAO, sono responsabili di circa il 20% dei gas serra emessi ogni anno nell’atmosfera), c’è il problema che sono diventati ingranaggi fondamentali e insostituibili di una macchina gigantesca: di recente, un bell’articolo della New York Review of Books ha ricordato che oggi 4 aziende producono l’80% della carne di manzo consumata in America, altre 4 macellano quasi il 60% dei maiali e che in questi impianti enormi vengono disossati 175 polli al minuto. Se se ne fermano una o due, di queste aziende, si ferma tutto: “Si sta spezzando la catena di distribuzione del cibo”, ha scritto in una lettera aperta pubblicata dal New York Times a fine aprile il presidente della Tyson Foods, un gigante da oltre 100.000 dipendenti.
La carne rossa, le malattie croniche e la Covid-19
Perché le persone stanno prendendo confidenza con questi alimenti: hanno scoperto che non solo sono buoni, ma pure fanno bene. È ormai poco smentibile che i cibi eccessivamente industrializzati siano dannosi per il nostro corpo, che le carni rosse, soprattutto gli insaccati, aumentino il rischio di sviluppare alcuni tumori (lo dice l’Airc), che un’alimentazione che si basa prevalentemente su questi cibi porti a malattie croniche, come ipertensione e diabete: “Non moriamo più a 30-40 anni, dunque cerchiamo di avere una vita non solo più lunga, ma anche migliore - mi spiegò l’anno scorso il dottor Samir Sukkar, direttore dell’Unità Operativa Dietetica e Nutrizione del San Martino di Genova - per arrivare sani a 90 anni è necessario consumare cibi che non abbiano effetti degenerativi e portino benefici a lungo termine”. Insomma, visto che la nostra “macchina” dura più a lungo, dobbiamo fare sì che resti efficiente più a lungo. Appunto con le verdure, o con i cibi che dalle verdure derivano.
Sì, ma che c’entra il coronavirus? C’entra, perché le statistiche confermano che proprio il diabete, l’ipertensione e altri disturbi di questo tipo hanno portato alle forme più gravi della Covid-19: secondo l’americano CDC, il Center for Disease Control, il 49% delle persone finite in ospedale per la pandemia soffriva di ipertensione, il 48% era sovrappeso e il 28% aveva il diabete.
Numeri che valgono non solo per gli Usa, ma anche per altre parti del mondo, così come valgono uguale quelli sull’andamento delle vendite e sul confronto fra carne e non-carne, richiestissima a Singapore, in Cina e in altre zone dell’Asia. Insomma, le persone stanno capendo che un modo diverso di mangiare è possibile, che non sono più gli anni Novanta, quando di alternative non ce n’erano, o ce n’erano poche e pure poco gradevoli al palato, e che seguire una dieta vegana o vegetariana non vuol dire mangiare erba e insalate e basta.
I wet-market, i pangolini e la sfiducia verso la carne
Fisicamente meno spazio: ogni anno la Cina produce quasi 90 milioni di tonnellate di carne, più o meno il doppio degli Stati Uniti (il dato è della FAO), destinata al mercato interno e all’esportazione. Per produrla serve spazio, tantissimo spazio, per gli allevamenti, per gli impianti di macellazione, per quelli di lavorazione. Spazio che i grandi gruppi industriali hanno sottratto (anche) ai piccoli produttori di carne “alternativa”, che, come raccontato dal Guardian lo scorso marzo, sono stati costretti a spostarsi in zone prima selvagge, nei boschi, nelle foreste: hanno messo in piedi gli allevamenti di pangolini e altri animali del genere, che poi vendono nei wet-market. Ed è probabilmente laggiù, ai margini, che un pipistrello (l’animale in cui si sarebbe sviluppato il Coronavirus) e un pangolino sono entrati in contatto, facendo mutare il virus e permettendogli di fare il cosiddetto “salto di specie” verso gli umani.
È anche per questo che sta aumentando la sfiducia dei consumatori nei confronti di questi prodotti e di chi li porta nei supermercati, nelle nostre case, nei nostri piatti. Ed è per questo che il 2020 ha la possibilità di essere l’anno della svolta.
Emanuele Capone si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.
Illustrazione di Davide Abbati.