Il futuro della non-carne passa dalle stampanti 3d. E dalle cellule delle mucche
Dalla versione a base vegetale alle bistecche stampate in 3d, a quelle coltivate in laboratorio partendo dalle cellule delle mucche: ecco la carne che mangeremo fra un paio d'anni
Il progresso corre veloce, non solo nel mondo dell’elettronica, dei computer, degli smartphone, ma anche in quello dell’alimentazione, inteso come quello che mangiamo. O che presto potremo mangiare. Fra l’estate e l’autunno del 2019, da questo e dall’altro lato dell’Atlantico, sembrava incredibile che si trovassero nei ristoranti e addirittura fossero in vendita nei supermercati, burger che hanno l’aspetto, l’odore, il sapore e il sanguinamento della carne, ma che di carne non ne contengono affatto (e per questo non si chiamano hamburger): sono fatti con i piselli o con la soia, con il succo di barbabietola per dargli il colore rosso. Neanche un anno dopo, siamo pronti a parlare della prossima “next-big-thing”. E magari pure ad assaggiarla.
Carne a base vegetale, un business che fa gola a tutti
Intendiamoci: la carne plant-based è qui per restare, e per restare a lungo. E anzi, anche in questa nicchia nella nicchia le novità non si fermano: fra fine luglio e inizio agosto, Beyond Meat ha scelto Milano e Roma per far debuttare in Europa il Beyond Mince, il macinato a base vegetale con cui preparare polpette, ripieni per tortellini e pure il ragù alla bolognese. Il punto però è che ormai non è solo una questione di Beyond e Impossible Foods, i due colossi americani che hanno speso milioni di dollari e impiegato 4-5 anni per trovare la ricetta giusta (sul Cucchiaio, ne abbiamo parlato nell'articolo Il 2020 e il boom della carne vegetale ), o della cilena NotCo, che in 2 anni è partita dalla NonMaionese per arrivare al NonLatte e ai NonBurger (vi abbiamo raccontato di questi e altri alimenti in Pesce di banana, patatine di salmone, latte fatto dall'IA e altri cibi assurdi che puoi già mangiare ) e soprattutto a toccare una valutazione di 250 milioni di dollari.
No, ormai è una questione con cui tutti vogliono avere a che fare, dopo aver provato a sconfiggere questi nuovi concorrenti a colpi di carte bollate e cause in tribunale (come descritto nel nostro articolo Game of Names ): oltre alle americane Tyson Foods, Kellogg e Perdue, che hanno dedicato parti importanti dei loro budget annuali per sviluppare una linea di prodotti a base vegetale, oltre alla Findus, passata dai bastoncini di pesce a burger e salsicce e polpette della linea Green Cuisine, oltre a Ikea, che a metà luglio ha fatto debuttare la nuova versione vegana delle sue celebri polpette, il segnale più grosso è quello arrivato dalla brasiliana Jbs. È il più grosso perché l’azienda è il più grande produttore di carne al mondo e la sua mossa può influenzare tutto il mercato: ha creato un nuovo marchio, chiamato Planterra Foods, e una nuova linea di prodotti (Ozo) a base di legumi che riproducono il gusto... del chorizo. Ovviamente, come ha precisato Darcey Macken, amministratore delegato di Planterra Foods, “non stiamo dicendo che la carne sia cattiva, ma…”. Ma gli affari sono affari.
Nella foto l'hamburger a base di legumi uno dei prodotti Planterra Foods.
Il prossimo step, la carne stampata
Il problema, per tutti quelli che rincorrono, è che la corsa si è già spostata da un’altra parte, in un altro campo. E pure si corre con scarpe differenti. Gli strumenti del (prossimo) futuro sono le stampanti in 3d, che potrebbero essere utilizzate per creare dal nulla bistecche, salsicce, polpette e così via. Le strade seguite sono due, quella della start-up israeliana Redefine Meat e quella dei russi di Bioprinting Solutions, che stanno lavorando insieme con gli americani di Kentucky Fried Chicken. Potere del business, di nuovo.
Nel primo caso, la carne viene creata partendo da ingredienti vegetali, un po’ come fanno Beyond e Impossible; la differenza sarebbe nella texture e nella struttura: la stampa 3d permetterebbe di riprodurre meglio la struttura muscolare degli animali, cambiando la consistenza del prodotto finito in una maniera percepibile al palato. Il secondo caso è un ulteriore passo avanti: il macchinario combina insieme ingredienti vegetali e cellule prelevate dagli animali e cresciute in laboratorio e il prodotto finito sa di carne perché è carne. Secondo i partecipanti, il traguardo di questa corsa è fissato da qualche parte nel 2021.
Il prossimo step, la carne coltivata
Uno o due anni più tardi (almeno) dovrebbero essere pronti i primi esempi della cosiddetta “carne coltivata”. Si chiama così perché è proprio così che viene fatta: si prelevano le cellule dalle mucche, le si nutre e le si fa crescere in laboratorio sino ad avere parti dell’animale che però non sono parti dell’animale e possono essere usate per preparare i tagli di carne che si vuole. Parecchi tagli di carne: secondo le stime, da ogni mucca si potrebbero ricavare 175 milioni di hamburger, invece del mezzo milione che se ne ricava adesso.
Qui di vegetale non c’è nulla: è carne e basta, come quella che viene fuori da allevamenti, macelli, mattatoi. La sua storia è piuttosto incredibile: i primi esperimenti risalgono al 2013, quando Mark Post, un ricercatore dell’Università di Maastricht, in Olanda, realizzò il primo “prototipo” di hamburger coltivato. Produrlo era costato oltre 1 milione di dollari. Due start-up, l’americana Just e l’israeliana Future Meat Technologies, sono convinte di poter abbassare questo prezzo a una decina di dollari entro il 2022, soprattutto perché i costi delle materie prime sono calati drasticamente nel corso degli anni. Ma il problema della carne coltivata non è solo il prezzo: è legale e normativo, e anche culturale. Gli Stati dovranno autorizzare il consumo di questo tipo di cibi per l’alimentazione umana e soprattutto i consumatori dovranno accettare di utilizzarli. Sarà questo il traguardo più difficile da raggiungere, per questa gara.
Prof Mark Post Chief Scientific Officer Mosa Meat
Immagine di apertura Redefine Meat
Emanuele Capone si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.