Il pane di Dante e il prosciutto sugli occhi: le parole del cibo spiegate dall’Accademia della Crusca
Sai perché si dice mangiapane e che c’entra Prometeo con quello che mangiamo e diciamo? Ce lo siamo fatti raccontare dall’Accademia della Crusca, che ci ha spiegato altri segreti del rapporto fra parole e cibo
Va bene, ma perché abbiamo parlato di questa cosa con quelli della Crusca? Che c’entra quello che mangiamo con quello che diciamo? C’entra perché l’importanza del pane per noi è evidente anche nel modo in cui parliamo e perché sono tantissimi i modi di dire e le espressioni che hanno a che fare con il pane e dal pane sono derivati.
Dante, il Paradiso e “Io pane altrui”
Nel Convivio, Dante parla di “pane degli angeli” e dice che è come “cibo della mensa dei sapienti” e a lui si deve una fra le citazioni più celebri, quel “proverai sì come sa di sale lo pane altrui”, indimenticabile per chiunque abbia fatto gli studi classici: “È nella Divina Commedia, nel canto XVII del Paradiso, ed è pronunciata da Cacciaguida, un trisavolo del poeta che in qualche modo gli profetizza il suo esilio da Firenze”. Nel 1302, Dante venne allontanato dalla sua amata città e fu costretto a emigrare al Nord: “La frase qui ha un doppio significato, sia materiale sia figurato. Nel primo caso, perché a Dante il pane del Nord non piacerà, proprio perché è salato e diverso da quello toscano (che ancora oggi è privo di sale, ndr); nel secondo, perché dà il senso della nostalgia di casa”. La Divina Commedia, che risale al 1320, è la prima opera della letteratura italiana in cui pane e sale compaiono insieme, e Dante li usa per simboleggiare un luogo che è estraneo a sé: “Il pane è appartenenza a una comunità, come dimostra il fatto che praticamente ogni regione ha il suo - ci ha detto ancora Alba - Il pane dà un senso di patria, di essere a casa”.
Per questo, anche per questo, nel Medioevo rubare il pane o comunque appropriarsi del pane altrui era considerato un crimine grave, talmente tanto che ancora oggi diciamo “mangiar pane a tradimento” per indicare qualcosa che non ci si è guadagnato: “Un po’ come Non è farina del tuo sacco (di cui su Cucchiaio.it abbiamo già raccontato), si usa per rappresentare quello di cui si gode senza averne diritto”. Nel tempo, abbiamo usato talmente tanto questa espressione che attraverso un processo di univerbazione si è arrivati alla parola mangiapane, che esiste davvero e secondo il dizionario indica “una persona insopportabilmente inutile e odiosa, un fannullone, un parassita”. Alba ci ha raccontato che è successo alla fine del 1800: “ArchiData, l’Archivio delle Datazioni lessicali (si raggiunge da qui, ndr), fa risalire la locuzione al 1882”.
Ben più antica è l’espressione “essere come cacio e pane”, e se non l’avete mai sentita non dovete sorprendervi: “È un modo di dire soprattutto toscano, che però si ritrova anche in altri dialetti e descrive due persone che stanno bene insieme, che vanno d’accordo, che sono fatte una per l’altro. Due amici, anche”. Ma perché cacio e pane? “Perché spesso si mangiavano insieme, perché erano i due cibi cui i contadini avevano più facilmente accesso”. Che viceversa è anche il motivo per cui “al villan non far sapere quanto è buono il cacio con le pere”, perché quell’abbinamento era riservato ai padroni, alle persone benestanti, a chi poteva permetterselo.
Il resto del piatto, dal fegato al prosciutto
Qualcosa di cui si può essere relativamente certi è però il nostro rapporto col fegato, a tavola e nella lingua: è un taglio di carne molto ricercato per le sue proprietà nutritive (è fra quelli più ricchi di ferro) e anche per questo è una parola che compare spesso nei nostri modi di dire. Soprattutto in due varianti, cioè “avere fegato” e “mangiarsi/rodersi il fegato”, rispettivamente a indicare una persona che ha molto coraggio e una persona furibonda, talmente tanto da farsi danno da sola: “Se ne trovano tracce nel Grande dizionario della Lingua italiana e nel Tommaseo-Bellini e il primo fa risalire la seconda delle espressioni alla Castalda, un’opera teatrale di Goldoni messa in scena la prima volta nel 1751”. Ma anche prima, proprio per l’uso che se ne faceva a tavola, gli antichi immaginavano che il fegato fosse importante, pur non sapendo bene perché: “Quando non si conoscevano i princìpi della circolazione, il medico Galeno ipotizzava che il fegato producesse dal cibo il sangue, che poi saliva al cervello, si univa all’anima e dava sostanza alla persona”. Sono teorie che oggi fanno forse sorridere, ma va ricordato che risalgono al 200 dopo Cristo. Prima ancora, comunque, “il fegato era un organo sacro e le interiora degli animali servivano per la lettura degli auspici, per cercare di prevedere il futuro. E nella cultura greca era considerato la sede del coraggio”. Per questo, anche allora, mangiarlo era importante.
Infine, un caso curioso è quello di “avere il prosciutto sugli occhi” (e per estensione, pure sulle orecchie), a significare il vedere o sentire una realtà distorta, il non voler accettare la realtà. Alba ci ha spiegato che “uno dei primi esempi dell'espressione si ritrova nella traduzione dell'Arte Poetica di Orazio, opera minore e della giovinezza di Leopardi”. Ancora: “È citato nel Tommaseo-Bellini, che lo indica come modo di dire di origine toscana, parlando di Occhi rossi come foderati di prosciutto”. Ma perché si diceva così? Che c’entrano i salumi con la vista? Certezze non ce ne sono, ipotesi sì: “Sul Tommaseo-Bellini viene citato un proverbio toscano che faceva riferimento a una malattia che si manifestava attraverso un’infiammazione delle palpebre, che si ritirano e lasciano scoperti gli occhi, che si arrossano e impediscono di vedere bene. E in quel caso si parlava di Occhi rossi come foderati di prosciutto”. Era come se si avesse il prosciutto sugli occhi, insomma: si può immaginare che “i ceti più bassi e meno colti della popolazione abbiano confuso questa sindrome con il salume e abbiano usato una parola al posto dell’altra”. E così sarebbe nato il modo di dire che usiamo ancora oggi.